Ferrante Sanseverino, un “feudatario” del Rinascimento.
Nel panorama storico-culturale cinquecetesco della città di Salerno, il principe Ferrante Sanseverino (1507-1568) si erge non solo come figura di rilievo nelle vicende storiche salernitane di quegli anni, ma anche come personaggio particolarmente amante della musica. Sebbene esponente di un ceppo feudale di antica origine e di cavalleresche tradizioni, egli riuscì a svolgere un ruolo illuminato di mecenate e di promotore della cultura degno più di quello analogo esercitato da alcuni principi rinascimentali dell’epoca che non di quello di un barone su cui il potere centrale, in questo caso quello del regno spagnolo, cominciava ad esercitare il suo controllo e le sue restrizioni che avrebbero condotto infine alla rovina di questo principe, malgrado la notevole dose di libertà e di indipendenza concesse. Ciò per un fenomeno di lenta evoluzione verso lo Stato assoluto verificatosi anche nel Mezzogiorno d’Italia, così come nel resto d’Europa, seppure con una fisionomia e con esiti del tutto diversi. Ferrante è l’ultimo rappresentante di quella dinastia dei Sansaverino che ebbe la signoria dell’ “Universitas civium Salerni” per circa un secolo.
Nacque a Napoli il 18 gennaio 1507, da una nobile famiglia di origine normanna, figlio di Roberto e Maria d’Aragona. Allontanato ancora bambino dalla madre che, su richiesta di re Ferdinando, sposava in seconde nozze Giacomo Appaiano, principe di Piombino, fu affidato a Bernardo Villamari, conte di Capaccio e grande Ammiraglio, perché crescesse devoto allo zio, il re Ferdinando. Questi gli promise sua figlia Isabella e ambedue, ragazzini, si sposarono il 17 ottobre 1516. Divenne in seguito generale dell’imperatore Carlo V, per il quale combatté in Africa e in Lombardia nelle guerre tra Spagna e Italia.
La presenza dei Sanseverino a Salerno, come ha osservato M. Antonietta Del Grosso (La civiltà salernitana nel secolo XVI, Salerno,1984) si differenziò “da quella di altri feudatari” per varie ragioni: per la vastità del loro dominio che si estendeva dal Cilento alla Lucania e perfino alla Calabria; per la rettitudine del governare, improntato a iustitia ed aequalitate, secondo la testimonianza del Pontano; per il grande sviluppo economico e culturale impresso ai territori del loro vasto Principato, in particolare da Ferrante, l’ultimo rappresentante di quell’antico “ceppo feudale”; per il mecenatismo espresso a favore di alcuni uomini di cultura anche salernitani e infine per le cure riservate da Roberto I a Ferrante, allo Studio Salernitano.
Affiancato nella sua attività di signore munifico e di promotore delle arti da sua moglie Isabella Villamarino, donna di notevoli qualità intellettuali, operò sia a Napoli che a Salerno nelle due sedi signorili, di cui probabilmente fu “la piccola corte salernitana” a godere dei maggiori benefici anche grazie alla presenza dello Studio. Così ci ragguaglia il Natella sul fervido clima di cui si circondò tale personaggio: “[Ferrante] Prese dimora in Napoli nel palazzo fatto costruire dal primo Roberto [Sanseverino], e, con gli anni, ebbe attorno a sé letterati, poeti, musicisti; egli stesso poeta, riceveva l’intellettualità napoletana del secolo anche in Salerno, ove Bernardo Tasso componeva le sue opere poetiche.
Il filosofo Agostino Nifo era dei suoi e insieme con lui Ferrante ravvivò la Scuola Medica Salernitana e creò le due accademie dei Rozzi e degli Accordati. La moglie Isabella scriveva e discettava di filosofia e arte. Insomma una delle famiglie colte e mecenatesche del tempo, i cui prevalenti interessi esteriori si compendiavano nella passione letteraria e nella continuità del rango mediante l’espressione e l’imposizione d’un fasto che le ingrandite tassazioni feudali potevano ben permettere” (I Sanseverino di Marsico,Regione Campania, 1980).
Fu fatale per Ferrante il governo del viceré spagnolo don Pietro di Toledo, “dispotico e prevaricatore dei diritti della nobiltà”, che lo osteggiò in svariate occasioni. In particolare l’odio di quest’ultimo aumentò quando Ferrante riuscì ad impedire che a Napoli venisse introdotto il tribunale dell’Inquisizione, trattando direttamente con l’imperatore. Il Sanseverino, messo in cattiva luce dal suo rivale, fu costretto a rifugiarsi in Francia (1551), mentre la Spagna confiscava i suoi beni. Morì esule ad Avignone nel 1568, sopravvivendo di nove anni a sua moglie (morta nel ’59), che non gli aveva dato eredi.
A cura di Rosanna Di Giuseppe